Cosa si cela dietro la produzione del cioccolato che compriamo?
Rispondere a questa domanda apre molteplici riflessioni che toccano temi come la biodiversità, la dimensione ambientale ed anche quella sociale.
A parlarne con parole concrete, perché frutto di un viaggio e di una ricerca nei luoghi di origine e di raccolta della fava di cacao, è il giornalista Luca Rondi che il prossimo 5 agosto incontriamo a Modica.
Nell’attesa, leggiamo un estratto dal suo caso studio condotto da Mani Tese all’interno del progetto Food Wave. CI racconta la storia di Bakary, produttore di un piccolo villaggio che, nel 2020 ha visto le sue piantagioni (come la gran parte di quelle in Costa d’Avorio) distrutte da una malattia, lo swollen shoot; della cooperativa Ecam che monitora il lavoro minorile (il 26% dei minori in Ghana e Costa d’Avorio è coinvolto nella produzione); dei produttori che, a causa della crisi del cacao, che riflette problemi economici e sociali più ampi, spingono verso colture e metodi più sostenibili.
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I germogli erano sempre più gonfi, le cabosse, che contengono le fave di cacao, sempre più nere, le foglie macchiate di bianco: all’inizio pensavamo che fosse colpa della siccità ma poi ha cominciato a piovere e il problema non si è risolto. In pochi mesi la malattia si è diffusa portandosi via l’intera piantagione”. Ouattra Bakary indica le sue piante di cacao che sorgono dietro le minute case in muratura sormontate da tetti in lamiera. Siamo in un piccolo villaggio a pochi chilometri dalla città di Méagui. Dall’inizio del 2020 lo swollen shoot, un patogeno presente fin dal 1940 in Ghana, ha iniziato a infettare le piantagioni di tutto il Paese. “Non si può fare altro che andare nella foresta: là il terreno è ancora fertile e non ci sono malattie”, sussurra Daouda, mentre con il machete indica i fusti secchi delle piante. Il distretto di Soubré in cui ci troviamo è uno dei più colpiti dal virus: secondo alcune stime, la riduzione media sulle 2,2 milioni di tonnellate di cacao prodotte in tutta la Costa d’Avorio nel 2021-2022 oscilla tra il 5% e il 10%.
Nel 2020 Bakary e la sua famiglia -25 persone in tutto- guadagnavano circa seimila euro all’anno (quattro milioni di franchi Cfa) oggi appena quattro. “E non solo: tre anni fa, quando le piante sono morte le autorità sono venute a verificare di persona gli effetti di questa infezione -aggiunge- e hanno inviato un rapporto agli enti competenti. Ma da quel giorno non abbiamo visto più nessuno”. La terra è rimasta incolta per quattro anni: una doppia perdita di reddito, perché senza il via libera dell’ente regolatore non è possibile sostituire la piantagione di cacao con altre colture.
“Qualche mese fa abbiamo deciso di cominciare noi a piantare mais, assumendoci la responsabilità”, spiega Doumbia Assata, la presidente della cooperativa Ecam di cui Bakary è socio. Il Consiglio caffè e cacao (Ccc) ha promesso forme di sostegno ai produttori colpiti senza però far seguire alle promesse i fatti. “Si tenta di far finta che il problema non esista, perché fa comodo così”, spiega Andrea Mecozzi. Un problema che ha enormi ricadute sociali. Mentre Bakary racconta come un virus invisibile abbia messo fine alla sua produzione di cacao, i nipoti scorrazzano davanti a lui. Assata cerca di capire quanti di loro frequentano l’anno scolastico appena iniziato. Ancora nessuno dei cinque: i 15mila franchi Cfa (22 euro) per l’iscrizione pesano troppo su un bilancio famigliare in difficoltà, senza contare i costi per la mensa. “Sono bambini a rischio sfruttamento: li segnaleremo e monitoreremo la situazione”, spiega la presidente mentre ci allontaniamo dal villaggio.
La cooperativa che dirige ha 15 delegati che, in ogni sezione, controllano l’impiego di manodopera minorile: sulla carta è il sistema statale che si dovrebbe occupare di seguire i casi segnalati, ma spesso sono le Ong e i partner internazionali a investire maggiormente nella presa in carico di queste situazioni attraverso un sostegno diretto alle cooperative. Per la campagna 2022-2023 Ecam ha identificato 200 casi di sfruttamento, in quella precedente erano stati 400.
L’International cocoa initative (Ici), finanziato da tutti i grandi player come Cargill, Ferrero e Barry Callebaut nel rapporto 2022 segnala che su un campione di quasi 800mila produttori, il 26% dei minori intervistati tra Ghana e Costa d’Avorio è stato identificato come vittima di lavoro minorile. “Su questo argomento c’è molta ipocrisia nel discorso pubblico. Un conto è non far studiare i bambini per farli lavorare -aggiunge Assata- peggio ancora la tratta di minori al solo scopo di sfruttarli lavorativamente. Ma un figlio che aiuta il padre nelle piantagioni al termine della giornata di studio va contestualizzato nell’ambito rurale in cui ci troviamo”.
L’esperienza della famiglia di Bakary per quanto “piccola” -le loro piantagioni contribuivano con appena cinque tonnellate sulle 2,2 milioni totali prodotte quell’anno in Costa d’Avorio- aiuta a comprendere i nodi irrisolti dell’insostenibile filiera del cacao ed è una testimonianza concreta di quanto sottolineato da Michele Nardella dell’Icco: quasi tutto ruota attorno alla sostenibilità economica che, se manca, ha gravi conseguenze dal punto di vista sociale e ambientale. Come detto, la maggioranza del prodotto che arriva in Europa è “convenzionale”: significa che è coltivato senza alcuna attenzione né nei confronti dell’ambiente, né della qualità del prodotto. Ma diverse realtà della Costa d’Avorio stanno passando al “biologico”: non solo per adeguarsi, meglio possibile, alle normative dettate, ad esempio, dall’Unione europea. Ma soprattutto perché si sono resi conto che quel tipo di coltura era ormai insostenibile. Raccontare le loro realtà aiuta a comprendere meglio le storture del sistema.