In questi mesi segnati da un nuovo conflitto nel cuore dell’Europa, rileggiamo insieme alcune riflessioni su guerra, globalizzazione e linguaggio tratte da un seminario sulla guerra in Iraq di Antonio Sichera:
Fra le altre interpretazioni possibili, certamente i romanzi e i racconti di Kafka potrebbero leggersi come una terribile, monumentale protesta contro l’inutilità di un linguaggio e di una parola che si avvitano su se stessi, senza offrire agli uomini vere vie di fuga e di salvezza dalla crisi del senso, dallo smarrimento del centro. Come se si fosse giunti, secondo Kafka, ad un momento della storia in cui parlare diviene un’attività vana, fuorviante, un domandare e un rispondere già in partenza votati allo scacco dell’insignificanza. Parlare, cercare, domandare e rispondere: tutto questo non serve a nulla, non approda a nulla.
In questo senso mi pare che Kafka profeticamente anticipato quel che il nostro tempo vive ormai come un dramma sotterraneo e insidiosissimo, e che in questi giorni sembra aver raggiunto limiti quasi assoluti: il diluvio di parole sulla guerra è veramente l’icona di un’epoca in cui il commento, la domanda vana, la risposta inutile – quel che George Steiner ha chiamato il «secondario» – vince sul «primario» della realtà e delle parole vive e vissute.
Sono altresì convinto fortemente che non si tratti di un caso. Le radici di questa elefantiasi del linguaggio sono profonde e ci riportano, se seguite, nel cuore della cultura dell’Occidente, del suo sviluppo, e probabilmente anche nel cuore della guerra, di questa guerra così essenzialmente “parlata”.
Per capire dobbiamo essere radicali, appunto, e ripartire dal luogo in cui il linguaggio viene alla luce nell’esperienza umana (e non nelle teorie dei linguisti). Che cosa significa imparare a parlare? Per la psicologia contemporanea più avvertita (penso anzitutto a Stern) significa imparare a narrarsi: il bambino che parla è il bambino che sa raccontarsi e che diventa così un soggetto. Ma il bambino non impara a narrarsi se non c’è un altro che gli dà le parole, se non può specchiarsi nelle parole di sua madre. Per il bambino quelle della madre non sono parole (non le capisce), sono dei suoni, o meglio una voce (quella che i Greci chiamavano phoné), una voce che prolunga e che si fonde col corpo che lo bacia e lo abbraccia, come se si sentisse amato e stretto da un corpo che risuona nella melodia di quella voce. Per lui il corpo materno è un corpo musicale, ed è il desiderio di essere anche lui un corpo melodico, di rispondere a quella voce, che si trasforma in parola: la parola sgorga per lui dall’imitazione di una voce amante, di un corpo che suona, la spinta decisiva alla parola coincide con il semiserio di corrispondere alla voce, alla phoné del corpo dell’altro. Sono parole che si portano dentro l’energia vivente dell’Altro, e che nei secoli cristiani diventano addirittura memoria di qualcuno che parlandomi mi custodisce, mi dà fiducia e mi incontra nel profondo.
Non possiamo capire la storia della modernità in Occidente senza renderci conto della cesura che in essa si è consumata: l’uscita dalla tradizione, iniziata con l’avvento della scienza, ha significato la crisi delle parole-corpo: la velocità ha strozzato il tempo del dialogo autentico, l’affermazione della ragione scientifica ha messo fuori gioco i linguaggi della religione, l’industria culturale ha avvilito la poesia.
La vittoria dell’economia nella modernità è la vittoria della tecnica: quel che era pensato come puro strumento ora diviene la misura di tutto. Relazioni strumentali, linguaggi strumentali, esperienze strumentali, governate cioè da una razionalità puramente strumentale: niente vale per sé, ma tutto è da valutarsi in vista della resa, in vista di quello strumento (Marx lo aveva capito, e Galimberti ce lo ha ricordato) che è la misura del moderno ed è l’emblema della vittoria della tecnica: il denaro. L’accumulazione del denaro è l’accumulazione di qualcosa che la tradizione ha sempre pensato come uno strumento-per, e che la modernità rende un fine in se stesso ed eleva incredibilmente a misura di tutto. Capiamo allora perché la tecnica occidentale (ovvero l’economia) è il segno sotto cui si è globalizzato il mondo: la tèkne ha ingoiato gli altri spazi di esperienza e ha posto sotto il proprio dominio, in un parallelismo inquietante, la guerra e il linguaggio.
(Antonio Sichera, Guerra, globalizzazione e linguaggio, in Lo sguardo dal basso. I poveri come principio del pensare, Argo edizioni, Ragusa 2006)