Gestemani 2020. La meditazione di Antonio Sichera

Gestemani 2020. La meditazione di Antonio Sichera

Gestemani 2020. La meditazione di Antonio Sichera Casa Don Puglisi

Condividiamo la meditazione del professore Antonio Sichera su questo Venerdì santo molto particolare, che viviamo in casa, in famiglia, lontani, ma uniti da un’unica Speranza.

GETSEMANI 2020

Introduzione

Quando inizia il racconto dell’agonia di Gesù nel Vangelo di Marco, si parla di Getsemani come di una meta raggiunta: “Giunsero ad un podere chiamato Getsemani”. A Getsemani di solito si arriva. Così è stato anche per noi di anno in anno. Questa volta però è diverso. Quest’anno a Getsemani non arriviamo, ma a Getsemani, quest’anno, noi già dimoriamo. La notte del giovedì santo non ci trova insomma in un luogo diverso da cui muovere verso l’orto. Getsemani è oggi la nostra casa. Per la nostra comunità questo è il primo Getsemani senza Padre Lorefice, è il primo senza Piero, senza un padre e senza un amico che hanno segnato la storia della nostra parrocchia e nei quali si riassumono tutte le sofferenze, le malattie, le perdite più nascoste e meno visibili che ogni anno scandiscono la vita di tanti di noi. A loro va il nostro pensiero colmo di affetto all’inizio di questa notte, con la nostra gratitudine e il nostro pianto, per quello che sono stati, per quello che sono e saranno per noi, per sempre. In maniera assolutamente imprevedibile poi, anche la storia del mondo ha imboccato nel giro di poche settimane una via getsemanica, si è curvata tutta verso Getsemani, e la terra ci appare ora come un immenso giardino degli ulivi in cui donne e uomini di ogni continente vivono in uno stato di sofferenza estrema, si trovano in una condizione simile a quella di chi è colpito da una guerra mondiale, affrontano un disastro in cui non solo l’umanità ma tutto il creato è coinvolto. Tante cose si dicono del virus in questi giorni. Alcuni rapporti scientifici affidabili ne collegano la recrudescenza all’abbattimento della biodiversità, alla conquista priva di scrupoli della natura e dei suoi habitat, che ha provocato l’estinzione di migliaia e migliaia di specie vegetali e animali. Mentre rivela allora la propria origine violenta, l’epidemia mette a nudo anche l’insopportabile disparità del mondo che abbiamo costruito, fatto di pochi ricchi e di miliardi di poveri. Un mondo squilibrato, fondato su un’economia preoccupata solo del massimo profitto e che ora dimostra tutta la sua fallacia. Non ci siamo curati della giustizia, non abbiamo pensato in primo luogo alla salute e alla vita buona di tutti, abbiamo creato o subito un dis-ordine mondiale dove la natura è ridotta ad uno strumento da utilizzare e chi è indietro, chi sta male, è un vinto da scartare, da sommergere. Il Getsemani di quest’anno celebra e rivela tragicamente l’agonia di ‘questo’ mondo, ci mette davanti agli occhi ‘la fine del mondo’ in cui in questi ultimi decenni siamo vissuti. In ogni agonia c’è il senso della fine, di tutto il dolore che ricade sulle vittime: i deboli, gli ammalati, le persone sole. Forse solo quando l’emergenza si allenterà ci renderemo conto meglio dell’enorme prezzo pagato in questa agonia, in questo ‘combattimento’ (tale è alla lettera una ‘agonia’) dalle prime linee di chi non ha trovato rifugio perché solo e senza casa, di chi è morto senza nessuno accanto, di chi è stato privato del pianto dei suoi cari sul suo corpo esanime, di chi non ha potuto piangere e iniziare a 2 elaborare i propri lutti. Tante sofferenze e tante morti senza nulla di sacro, senza rito, senza affetto. In prima linea in questo combattimento, però, ci sono anche tante persone che si sono frapposte, che hanno lottato e continuano a lottare contro la signoria della morte. Tante donne e tanti uomini, tanti fedelissimi animali domestici, tante creature che a loro modo hanno testimoniato e continuano a testimoniare la potenza di quella fragilissima realtà che è il soccorso vicendevole nella distretta, la reazione dell’amore e della vita all’insidia dell’annichilimento e della distruzione. Sono queste le due facce, i due volti dell’agonia che viviamo: l’impero cruento della morte e la commovente resistenza della vita. Non della nuda vita, del puro sopravvivere su cui si sono appuntate in questi giorni le critiche di qualche filosofo: su che cosa può fondarsi, che futuro ha una società che rinunzia a tutto pur di difendere il puro fatto di vivere? – si è chiesto Giorgio Agamben. Ma aveva torto. No. Le donne e gli uomini degli ospedali, tutti i protettori che si sono battuti e si battono sulla frontiera del virus non difendono la mera vita, ma manifestano la tensione relazionale dei nostri corpi, l’inclinazione verso il volto dell’altro che abita nel cuore dell’uomo, che raccoglie e fa giungere fino al dono di sé anche quanti non avrebbero mai pensato di farlo, anche chi è rimasto sorpreso dall’onda. Da questo punto di vista, il Getsemani di stanotte è per tutti noi una chiamata ed esige una scelta. Stanotte nel giardino dobbiamo decidere se stare dalla parte della rassegnazione, della paura, della difesa ad oltranza del nostro piccolo mondo, dell’attaccamento ad un passato ormai agli sgoccioli, ovvero se scegliere di stare dalla parte della vita che resiste, dell’amore che combatte, della speranza che germoglia, del futuro preparato dal grido dei poveri e dal soccorso degli amanti.

Preghiamo: O Padre, che fremi nelle viscere per il dolore di ogni tua creatura e fai sorgere il tuo sole sui giusti e sugli ingiusti, guarda la nostra debolezza, soccorri con il tuo amore ogni sofferente, sostieni le ignote sentinelle dell’amore, apri la terra alla speranza di una vita nuova. Te lo chiediamo per Gesù nostro fratello e Signore. Amen 3 Mc 14, 32-34 Giunsero intanto a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego». Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Gesù disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate». Nella traduzione del testo di Marco che abbiamo appena ascoltato manca in verità una parola. L’originale greco non comincia con “Giunsero” ma con “E giunsero (giungono)”. Non è un mutamento da poco perché proprio la congiunzione ‘e’ (kai in greco) la fa da padrona nel nostro racconto. Vi torna infatti ben 16 volte: “E giunsero… E prese con sé … E, avanzato un po’…” e così via. È come se nel racconto della separazione più assoluta – dove cioè accade l’abbandono di Gesù, tra il sonno dei discepoli e il silenzio del Padre, dove appare il suo essere diviso dagli amici e da Dio – il testo di Marco immettesse segretamente, silenziosamente, una energia unitiva, una congiunzione che allude al legame e alla condivisione proprio nella notte della separatezza più assoluta. La quasi invisibile forza unitiva di una ‘e’ contrasta la manifestazione della dis-unità, della lacerazione dell’orto. Gesù arriva infatti in questo podere il cui nome, Getsemani, che in ebraico vuol dire ‘frantoio’, ci suona familiare. A Getsemani la vita di Gesù e di tutti i dolenti di oggi e della storia viene spremuta, frantumata, pestata. L’oliva schiacciata dalla macina non sa che dalla sua morte verrà fuori l’olio, non può sapere che scorrerà da lei un fiume verde prezioso e profumato. L’oliva conosce solo la propria prova, il proprio annichilimento. Così per tanti, per troppi oggi in mezzo a noi. Gesù giunge a Getsemani con i suoi “discepoli”. Giuda infatti ha tradito e non ci sono più gli apostoli, non ci sono più i dodici. Per questo Marco chiama ‘discepoli’ i compagni di Gesù nel giardino. Discepolo (mathetés), alla lettera significa (se collegato correttamente al verbo greco manthano) ‘colui che impara, che intende, che riconosce’. Potremmo dire che il discepolo impara in quanto intende e riconosce il proprio maestro. Non ci sono titoli, non ci sono istituzioni che riparano. Non ci sono apostoli, vescovi o papi a Getsemani, ma solo discepoli. Chi entra con Gesù è riportato alla misura del discepolato, è annoverato nella schiera di coloro che imparano dal Maestro, è ricondotto alla sua identità, alla pura ed essenziale sequela di Gesù: dietro a lui. Una volta arrivati nell’orto Gesù separa il gruppo. Dice ai discepoli di sedersi e di aspettare ‘qui’ (ode). Chiede insomma di aspettare e di lasciarlo andare. Come se dicesse: ‘Siate docili, rimanete qui’. C’è nell’accompagnamento dei dolenti una saggezza del fermarsi, un rispetto della distanza che oggi è diventato tra l’altro un tema d’attualità, ma che nel nostro testo – lo notano gli esegeti – deve intendersi come un rimando a Genesi 22, alla richiesta di aspettare lì lui e Isacco rivolta da Abramo ai suoi servi in cammino verso il monte Moriah: “Allora Abramo disse ai suoi servi: «Fermatevi qui con l’asino; io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo e poi ritorneremo da voi»”. Gesù è il nuovo Isacco, che sul monte degli Ulivi compie ciò che il fatto di Moriah annunciava in figura: la consegna della vita del figlio 4 per gli uomini. Ma è anche il nuovo Abramo, che con la determinazione e il pathos di chi offre il suo unico figlio, sale sul monte per una contesa terribile con la morte, per un atto di obbedienza lancinante al suo Dio. Si compie così a Getsemani la parola di Genesi: in quel giorno, sul monte Moriah, il Signore fu visto, e da allora si dice di quel luogo: “Sul monte il Signore è visto”; in quella notte, sul Monte degli Ulivi, Dio si è fatto definitivamente vedere nell’agonia di Gesù di Nazareth, il figlio amato. Come se Marco volesse suggerirci che a Getsemani, ormai realmente e non in figura, noi abbiamo visto Dio. I discepoli devono restare seduti mentre Gesù prega. Alla lettera: “sedetevi qui finché io avrò pregato”. Al tempo della stasi dei discepoli corrisponde il tempo della preghiera di Gesù. Quella che si manifesta a Getsemani è la preghiera nel suo senso più proprio. Non la preghiera intesa come riflessione sul significato della vita (così la pensava un grande filosofo come Ludwig Wittgenstein), né la preghiera come un atto etico in cui ci si schiera dalla parte del bene e del giusto, unendo il cielo e la terra (Mancuso). Euchomai nella religiosità greca è la preghiera in quanto proclamazione di una pretesa o emissione di un grido di trionfo. A Getsemani di tutto questo rimane l’essenza più umana: nell’orto Gesù di Nazareth prega in quanto leva il suo grido verso il Padre esprimendo la giusta domanda di colui che è Figlio. Così si mette, mette tutta la sua vita davanti a Dio, ed è questo gesto semplice, possibile per chiunque, il vero cuore della preghiera cristiana. “E prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire…”. Prese con sé: in greco paralambanei met’autou. Il verbo greco paraphero torna solo questa volta nel vangelo di Marco. È quel che si dice in termine tecnico un hapax legomenon. Significa alla lettera ‘portare accanto’, ‘portare via qualcuno o qualcosa ponendosela di fianco’. Gesù stacca dalla cerchia più larga Pietro, Giacomo e Giovanni e li porta via, se li mette vicini, esprimendo la libertà dovuta al dolente di scegliersi nella distretta le persone con cui si sente a proprio agio, gli intimi vicini nella prova. Ma appena li ha a lato Gesù si abbandona al dolore, con una simultaneità sorprendente: “E prese… e cominciò”. Come se avesse disposto tutto e ora, quando finalmente ha a fianco i tre amici, si lascia andare. Come se avere gli altri accanto fosse la condizione per esprimere la propria sofferenza, come se ci fosse sempre bisogno di avere qualcuno accanto per soffrire. Non è giusto rimanere da soli mentre si soffre e si muore. L’espressione “e cominciò” (kai erksato) è la stessa che Marco usa per i discepoli all’annuncio del tradimento, quando cominciano ad addolorarsi (erksanto lypestai) per le parole di Gesù: “Uno di voi mi tradirà”. I discepoli iniziano a lamentarsi per il tradimento imminente e inatteso. Gesù comincia il dolore perché è stato tradito da un amico. E poi prova ‘tristezza’ (ekthambeistai), un verbo che si potrebbe tradurre con ‘provò stupore e terrore’, ovvero con ‘rabbrividì’, e che allude alla sensazione straniante di chi si sente Dio addosso, di colui che avverte Dio come implicato nella minaccia di morte incombente e avverte un terrore inconsulto. E per questo si angoscia (ademonein), che vuol dire essere presi allo stomaco, sentirsi lo stomaco stringere terribilmente fino alla nausea e al vomito. Esperienze 5 terribili, che mettono però Gesù sulla scia del salmista: “Dentro di me palpita violentemente il mio cuore e una paura mortale mi è piombata addosso. Paura e tremore mi invadono e sono preso dal panico. E dico: ‘Se avessi ali come di colomba, per volare via e trovare riposo’” (Salmo 55, 4-6); e ancora: “Le lacrime sono diventate il mio cibo giorno e notte, mentre mi dicono sempre: ‘Dov’è il tuo Dio?’” (Salmo 42). A questi salmi pensa Marco quando ci racconta Getsemani, all’esperienza del credente biblico che nell’angoscia vorrebbe scampare si sente chiedere dagli altri: “Ma dov’è il tuo Dio? Il Dio in cui speravi?”. Getsemani è così l’inizio del Golgota. D’altronde, l’anima di Gesù è abbattuta mortalmente, e lo è sempre sulle orme dell’orante dei Salmi: “La mia anima viene meno per l’affanno, i miei anni svaniscono nel pianto; la forza mi è venuta a mancare per la mia afflizione, si legano tutte le mie ossa” (Salmo 31, 10). La tristezza fino alla morte è la reazione di Giona davanti all’incalzare dei nemici. Giona si abbatte perché Dio non vuole distruggere Ninive, Gesù si abbatte perché tutti noi possiamo essere salvati, perché per nessuno venga meno la speranza. Accanto a lui i discepoli eletti dovrebbero permanere nella fedeltà – questo il senso profondo del “restate qui” – e levarsi. Gregoreite, il verbo greco tradotto con ‘vegliare’ viene dal verbo egeiro, che vuol dire levarsi dopo la sveglia, svegliarsi. Quindi Marco dice che i discepoli dovrebbero levarsi in piedi davanti a Gesù, come a fargli da scudo e custodirlo. Era questo il desiderio del Maestro a cui Pietro, Giacomo e Giovanni non sapranno corrispondere, immagine e monito per la Chiesa a Getsemani, per noi.

Preghiamo: Signore Gesù, che a Getsemani hai portato davanti a Dio la nostra prostrazione e la nostra morte, il nostro fallimento e la nostra miseria, facci contemplare stanotte la tua gloria nell’orto, principio e sorgente della trasfigurazione del creato. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen 6 Mc 14, 35-36 Poi, andato un po’ innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell’ora. E diceva: «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu». Gesù si stacca dagli intimi, dagli amici scelti e si sporge in avanti, seppur di poco (mikron). Come accade spesso nel dolore umano, sembra entrare in campo qui un dinamismo regressivo, di grande tenerezza. Gesù infatti si allontana, ma non tanto da non rimanere sotto gli occhi (e forse anche a portata di orecchi, visto il forte fondamento storico del racconto) dei suoi discepoli. Si comporta come i bambini piccoli che si lanciano in avanti per esplorare il mondo e però mai tanto da perdere il contatto oculare e uditivo con la mamma. Sa di dover essere solo, vuole rimanere da solo, ma vorrebbe sentire vicini Pietro, Giacomo e Giovanni in questo dolore mortale. La sua preghiera, d’altronde, altro non è che il suo corpo abbattuto. Si getta a terra (epipten epi tes ges). Quando un uomo è sfinito, non ha più forze, è toccato dal dolore così a fondo da non poter restare in piedi, allora cade. E il suo corpo torna alla terra, quasi avesse bisogno del contatto con la madre che lo ha generato, quasi che cercasse il suo abbraccio; come se la sua resa, il suo sfinimento potessero terminare solamente con la morte, con il ritorno alla terra madre. È un’esperienza comune agli umani, che forse anche noi abbiamo fatto nelle prove della vita. È l’esperienza che probabilmente tante donne e tanti uomini avviliti stanno facendo in questi giorni e in questi mesi. L’esperienza che molti di noi hanno attraversato, come è facile immaginare, in quest’anno getsemanico. Il racconto di Marco giunge a dar senso e sostegno a questo vissuto. Marco infatti ci dice che quando una donna o un uomo si gettano a terra feriti e abbattuti, lì, senza bisogno di parole e al di là di ogni loro consapevolezza, viene levato un grido, si innalza una preghiera verso Dio. Pregare è originariamente questo gesto umanissimo e universale. Tutti coloro che lo compiono e lo vivono non hanno bisogno di patenti religiose. È questo il rito umano supremo e fondativo. Chi lo celebra sta già pregando, agli occhi e al cuore di Dio. Perché Gesù si getta a terra? Perché non vuole morire. Se riduciamo la potenza di questo desiderio disinneschiamo la potenza di Getsemani. Colui nel quale i credenti vedranno il volto di Dio è un uomo amante della vita, capace di goderla, felice di gustarla. Non è uno stoico, non è un cinico. Né è un asceta o un saggio alla maniera di Socrate. La grandezza di Gesù a Getsemani è l’annullamento delle distanze, il suo appaiarsi al nostro amore per la vita. Per questo leva la sua voce verso il Padre e gli chiede che l’ora – il tempo della sua morte ignominiosa, del suo rifiuto e della sua kenosis – si allontani da lui, con una forza ribadita dall’uso contemporaneo, in greco, di due preposizioni di distanziamento (para e apo). Lui sa di non avere scampo e sa che a suo Padre tutto è possibile. La formula greca panta dynata soi (“tutto è possibile a te”) esprime secondo gli esegeti la vera professione di fede di un uomo per il quale non c’è salvezza e che invoca per questo il suo soccorritore. 7 Pregare non è solo l’azione di chi intravede una via di fuga, di chi pensa che possa accadere qualcosa che modifichi la sua posizione facendolo uscire dalla distretta. No. Pregare è anche il gesto ultimo di chi sa di non poter trovare salvezza. Si prega anche senza speranza, dove la speranza di scampare viene meno. Gesù prega perché il filo della relazione con il Padre non si spezzi anche se sa che non c’è alternativa reale, che la morte incombe. Ma non rinuncia a parlare, a levare la preghiera impossibile, la stessa che aveva insegnato ai discepoli nel Padre nostro: “non farci entrare nella prova”. La nuova traduzione della preghiera di Gesù (“non abbandonarci alla tentazione”), per cercare di rimediare all’equivoco dell’‘indurre in tentazione’, rischia di perdere di vista la radicalità della richiesta e la sua potenza. Gesù non chiede di non essere abbandonato – preghiera che potrebbe essere in qualche modo soddisfatta – Gesù chiede al Padre di non entrare in tentazione, di non essere messo alla prova. Non vorrebbe essere assistito mentre soffre o lasciato andare violentemente alla prova, ma vorrebbe semplicemente non soffrire. Sa già che questo non è dato, ma non rinuncia a levare la voce, pensando che abbia senso dire e chiedere l’impossibile a Dio, per il quale tutto è possibile. Perché un figlio nell’angoscia chiede a un padre anche quel che il padre non gli potrà dare, ma lo fa lo stesso, perché per lui è importante parlare, aprire lo stesso il proprio cuore davanti a Dio. Per questo Gesù dice Abbà, usando la parola ebraica che Marco ripete provando a tradurla in greco (ho pater) ma senza intaccarne l’incisività come avrebbe fatto azzardandosi a sostituirla. È ormai assodato che questo appellativo rivolto a Dio non ha analogie nella corrispondente letteratura giudaica: è un’apostrofe familiare – dicono gli esegeti – propria dei figli, grandi o piccoli che siano, ed esprime un’esperienza inedita di Dio, una dimestichezza impensabile. È il nucleo centrale della fede di Gesù di Nazareth, il nucleo della nostra fede, che si declina nell’obbedienza all’incomprensibile, nella remissione fiduciosa a quel che agli occhi del credente appare come un disastro irreparabile. Ma nella negazione di ogni possibilità, una ne resta aperta al dolente, ed è quella di dire Abbà, di dire Papà mio, e a quella tutta la fede di un uomo o di una donna resta appesa, tutta la loro speranza, poggiata sull’invocazione affettuosa del Figlio nella notte di Getsemani.

Preghiamo: Signore Gesù, che ci hai fatto dono di una intimità impensabile con Dio nel giardino della tua agonia, dona ad ogni donna e ad ogni uomo nella prova, in questo tempo così duro, di poter sentire sempre che Dio è un Abbà e di poter riposare, anche senza saperlo, nella tua fede a Getsemani, che è per noi la buona notizia del Vangelo. Tu che vivi accanto al Padre tuo nei secoli dei secoli. Amen 8 Mc 14, 37-42 Tornato indietro, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Allontanatosi di nuovo, pregava dicendo le medesime parole. Ritornato li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano appesantiti, e non sapevano che cosa rispondergli. Venne la terza volta e disse loro: «Dormite ormai e riposatevi! Basta, è venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino». Gesù torna e trova i discepoli dormienti. Si rivolge a Simone, con un lamento che dice l’accoratezza della solitudine e preannuncia il rinnegamento. Simone non ce la fa a star sveglio un’ora sola col Maestro così come non ce la farà a confessarsi suo discepolo in quella notte di passione. Chi dorme perde consapevolezza di sé. C’è un legame intimo tra il sonno del giardino e il misconoscimento del Signore. Solo chi sta sveglio può affiancarlo e non vergognarsi di Lui. Come se Marco volesse esortare così la comunità cristiana di ogni tempo a non abbandonare i poveri e i sofferenti al loro dolore, a non dormire davanti al dolore del mondo. Ma Marco vuole anche ricordare ai suoi lettori che la veglia getsemanica non è un atto di forza, un vanto di chi resiste ed è coraggioso. Essa non può configurarsi come un merito. Bisogna infatti rendersi conto di essere fragili, bisogna accettare di non reggere e di fare i conti con la debolezza della carne. “Lo spirito è pronto, ma la carne è debole”. La contrapposizione tra la carne e lo spirito, tra lo pneuma e la sarx non è da intendersi infatti in un senso morale. Gesù, con questa espressione, condivide l’orizzonte antropologico degli Esseni, della contemporanea comunità di Qumran. L’idea sottesa è che siamo dentro il combattimento escatologico e che l’uomo è ormai divenuto il campo di battaglia tra Dio e Satana. Il senso della frase di Gesù si capisce dunque nel quadro di una visione apocalittica. Gli ultimi tempi inaugurati dal Cristo sono quelli in cui Dio e satana, le potenze del bene e quelle del male si affrontano in una lotta senza quartiere, di cui ogni donna e ogni uomo sono partecipi. Nella distretta estrema, nel Getsemani della storia, i discepoli non devono contare su sé stessi, ma sapere che l’aiuto viene solo da Dio. Lo spirito pronto (la parola prothymos è un altro hapax in Marco) è quello di chi per combattere la battaglia apocalittica, per dare il proprio contributo alla vittoria delle potenze del bene, non confida sulle sue forze ma solo sulla preghiera umile e incessante levata verso il Padre. È questo lo spirito pronto: contare non sulla propria energia, sulla propria dirittura morale, ma solo sull’onnipotenza di Dio. La preghiera è la prima arma di questa guerra, che oggi ci sembra così vicina, così attuale. Mentre ci sentiamo inadeguati e incapaci di sostenere i fratelli, di difendere la causa del bene, siamo chiamati a rimettere a Dio le sorti del combattimento, offrendo umilmente noi stessi per la causa di Colui che non ci lascia soli. Chi dimora in questo atteggiamento lotta per la salvezza del mondo. Non da eroe, ma da creatura fragile e bisognosa. ‘Non vogliamo essere chiamati eroi’ hanno detto e continuano a dire i tanti militi della battaglia dei 9 nostri giorni, cogliendo appieno, pur senza saperlo, il senso delle parole di Marco. Non da eroi, ma da donne e da uomini soggetti alla fatica della vita, tutti costoro hanno combattuto, e molti sono morti, in vista di un bene prossimo e non disattendibile: la salvezza di un volto, di una donna sorella o di un uomo fratello nel dolore. A questo punto, la scena assume una tonalità tragica. Gesù si allontana altre due volte per pregare e per altre due volte tornando trova i discepoli incapaci di tenere gli occhi aperti. L’espressione ophtalmoi katabyromenoi (occhi appesantiti) si riferisce probabilmente al testo di Genesi 48, quello della benedizione dei figli di Giuseppe da parte di un Giacobbe ormai vecchio e prossimo alla fine. Quando Giuseppe gli presenta Ephraim e Manasse per benedirli, Giacobbe si rallegra, perché sta vedendo di nuovo non solo il volto del suo amato Giuseppe – che credeva perduto –, ma anche quello dei figli di lui. Eppure, come aveva fatto suo padre Isacco (ma senza saperlo), Giacobbe decide scientemente di benedire con la mano destra e dunque di far precedere il figlio minore Ephraim rispetto a Manasse, il primogenito. Sarà Ephraim a diventare un grande popolo. Il testo dice che Giacobbe aveva gli occhi annebbiati, appesantiti, e che Giuseppe si rammaricò dell’ingiustizia del padre. Ma il destino di Israele rimarrà legato a Ephraim. Resta allora la speranza che gli occhi appesantiti di Pietro, Giacomo e Giovanni, gli occhi di tutti noi, annebbiati davanti al Getsemani dei fratelli, possano diventare per grazia fonte di benedizione e di salvezza. Come se i rovi e la rovina di quel giardino possano ancora tornare a fiorire, come se con i nostri occhi appesantiti e la nostra tragica inadeguatezza potessimo essere lo stesso, infine, per qualcuno almeno, consolazione di quel Dio che non finisce, pur nella notte, di consolare e soccorrere i suoi figli.

Preghiamo: O Padre, che hai assistito in un silenzio doloroso all’agonia di tuo Figlio a Getsemani, non guardare alla nostra povertà ma manda il tuo Spirito perché la nostra debolezza mortale diventi grido della creazione intera e la nostra pesantezza, fraterna a quella di Pietro, di Giacomo e di Giovanni nell’orto, si muti in fonte di consolazione e di speranza. Te lo chiediamo per Gesù nostro Fratello e Signore. Amen