Riportiamo la trascrizione della meditazione di Fra Antonello Abbate in occasione del “capitolo di Pentecoste” delle esperienze nate a Modica NEL NOME DI DON PUGLISI (ripresa dalla registrazione) – Modica, Monastero delle Benedettine – mercoledì 22 luglio 2020
Sin dall’inizio colgo l’occasione per ringraziare voi e il Signore soprattutto, perché mi permette di condividere con voi un pensiero, come accaduto l’anno scorso a Crisci ranni per Pentecoste. In quell’incontro ricordo che feci riferimento a San Francesco, quando si riuniva con gli altri frati per ripristinare la fraternità e per riprendere il cammino da lì in poi. Oggi colgo l’occasione per rendere grazie. Il primo motivo di questo grazie è il fatto che mi avete riportato in questo posto di cui sono stato per un periodo di tempo uno dei cappellani feriali delle monache (celebravo l’eucaristia dei giorni dispari). Era per me una bellissima occasione di partenza della mia giornata. Il secondo motivo è proprio quello di poter condividere con voi alcune riflessioni. Vi vedo, vi percepisco come una concretizzazione di un amore eccedente, effusivo. Come quello che ci insegnano le mamme, persone che amano così per vocazione. Prima di tutto si ama! Questa è l’occasione per aiutare a capire quello che voi fate. C’è una consapevolezza che dobbiamo acquisire tutti su quello che facciamo, per capire da quale origine sgorga. Il terzo motivo è legato a questa giornata: giornata bellissima – festa di santa Maria Maddalena – per certi versi, ma anche carica di un po’ di tristezza, perché in questo giorno noi ricordiamo il carissimo Piero Iemmolo, esempio concreto di un amore folle, che si dona e si supera continuamente. Partendo dalla Scrittura vorrei condividere con voi qualcosa alla luce di una delle due possibili prime letture di oggi: potremmo leggere infatti quella tratta dal Cantico dei cantici oppure quella della seconda lettera ai Corinzi. Ho scelto la seconda: 2 Cor 5, 11-17.
11Consapevoli dunque del timore del Signore, noi cerchiamo di convincere gli uomini. A Dio invece siamo ben noti; e spero di esserlo anche per le vostre coscienze. 12Non ci raccomandiamo di nuovo a voi, ma vi diamo occasione di vantarvi a nostro riguardo, affinché possiate rispondere a coloro il cui vanto è esteriore, e non nel cuore. 13Se infatti siamo stati fuori di senno, era per Dio; se siamo assennati, è per voi. 14L’amore del Cristo infatti ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. 15Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro. 16Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così. 17Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.
Mi sono lasciato ispirare dalla liturgia di oggi, perché è come una parola che Dio ci riserva, parola reale e sostanziale, per ogni attimo della giornata. E poiché essa ci accompagna, dobbiamo lasciarci realmente accompagnare! Cercavo un punto di ispirazione, e questo non poteva che venire dalla Sacra Scrittura. Questo passo di 2 Cor mi è stato suggerito anche da quello che è il tema, di bellezza e grandezza straordinarie, cioè “l’amore eccedente”. Stiamo parlando di Dio! Quando si parla di amore si parla di lui. Possiamo dirlo con le parole di san Giovanni: «Dio è amore»! L’amore ha come sua proprietà una caratteristica fondamentale: è sempre eccedente, mai sottotono. Cos’è l’amore? È Dio. Se l’amore è Dio, allora Dio è sempre eccedente e, se noi «siamo di Dio», non possiamo che essere sempre in difetto. Noi agiamo sempre per eccesso, anche sbagliando. Un amore che funziona per difetto in un certo senso non è amore. La vita per certi versi ci insegna una razionalità che dice essere impossibile amare colui che non ti ama. Ma le parole di Gesù sono chiare: «Se amate solo quelli che vi amano che merito ne avrete?»: tutti fanno lo stesso, anche i peccatori. Questo è già un aspetto dell’amore: un amore che si disperde come il seme della parola di Dio, che verrà gettato anche laddove arriveranno gli uccelli e la mangeranno subito. Entrare nella logica dell’amore allora vuol dire entrare in questa logica che diventa a sua volta una logica di fatica. Non la chiamo sofferenza, perché chi ama veramente non vive l’amore come pesantezza: «Venite a me – dice Gesù – voi che siete stanchi e oppressi, prendete il mio giogo sopra di voi». Il vero amore non ti opprime, non ti dà il senso dell’oppressione, anche se ti dà il senso della stanchezza. Dobbiamo distinguere la stanchezza dal senso di oppressione. Si è stanchi quando ci si consuma, si è sempre stanchi se si ama nella vita. Gesù ebbe esperienza diretta nella sua vita di questa stanchezza. «Per quanto tempo dovrò stare ancora con voi?» – dice ai suoi: è un Gesù che sente stanchezza, la fatica di una relazione vera. Dove ci sono relazioni vere c’è anche la fatica; dove c’è un dono di sé alla chiesa (intesa come luogo preciso dove ci si spende realmente, dove c’è questa attualizzazione dell’amore) c’è sempre una stanchezza, che però non è pesantezza. Quest’ultima si ha quando il nostro cuore viene impedito nell’amore. La prima cosa che dobbiamo allora eliminare dal nostro cuore di cristiani è il rischio che l’amore, a un certo punto, diventi pesante. Essere stanchi sì, ma oppressi no! Perché, quando l’amore diventa oppressione, si smette di amare. Dobbiamo invece, in questo senso, liberare il nostro cuore. E qui mi viene in soccorso proprio Paolo:
11Consapevoli dunque del timore del Signore, noi cerchiamo di convincere gli uomini.
Essere consapevoli di ciò che accade nella nostra vita: è bellissimo questo passaggio! Paolo parla di timore del Signore. Voi sapete che nella sacra Scrittura quando si parla di “timore di Dio”, non lo si intende come oppressione. Essere timorati di Dio è proprio dell’amore, perché il timore è caratteristica dell’amato e di colui che ama. Qui mi rifaccio anche all’altra lettura che ci è data oggi dal Cantico dei Cantici: «Lei ha timore di aver perso lui». Il timore, dunque, è la paura di ‘perdere’ o, leggendola da un altro punto di vista, il desiderio di ‘trattenere’. Come Maria Maddalena, con il suo desiderio di ‘trattenere’, ma anche con la paura di ‘perdere’ nel momento in cui non trova il corpo di Gesù e chiede dove hanno portato il suo Signore. Questa consapevolezza ci deve riportare al timore del Signore, perché nel timore del Signore noi riprendiamo la logica dell’amore. Ecco una prima domanda che vi potrete fare nel silenzio: il mio rapporto con il Signore è di tipo oppressivo o è “nel timore del Signore”, cioè nella paura di perdere l’amore del Signore? Ho consapevolezza del bene che è l’amore di Dio riversa su di me e che io posso versare sugli altri? Ho consapevolezza o quello che faccio lo faccio solo perché ho un ruolo, mi è stato affidato un incarico? O lo faccio perché quest’amore eccede? Se voi rimanete nei ruoli, rimanete nel ‘dovere’. Se rimanete nell’amore, l’amore eccede, non fa più conto di nulla!
Continuando, Paolo dice che l’annuncio scaturisce da tutto ciò, quindi da questo timore del Signore, ovvero dalla consapevolezza dell’amore che ci è stato dato e che noi, quindi, possiamo dare. Nel Padre Nostro diciamo: «Venga il tuo regno!». In fondo che cos’è? È il desiderio che ciò che è in noi, nella nostra esperienza, possa essere percepito e condiviso con gli altri. Quello che voi fate, sia a Crisci ranni che alla Casa don Puglisi, diventa luminoso perché diventa visibile. Una visibilità che non è e non deve mai diventare la visibilità della presunzione o dell’orgoglio, ma la visibilità di un amore che si dona e che da solo si vede. Altra caratteristica dell’amore: quando c’è, si illumina da solo, e illumina gli altri come una luce accesa. Quando questo amore c’è, si effonde nella casa: una luce che è stata accesa «non per essere messa sotto il moggio, ma sul lucerniere», perché tutti possano vedere. Capiamo allora che questo ‘convincere’ di Paolo non è opera di proselitismo, ma è un far vedere agli uomini ciò che è ben visibile nella loro vita. L’apostolo continua:
A Dio invece siamo ben noti; e spero di esserlo anche per le vostre coscienze. 12Non ci raccomandiamo di nuovo a voi, ma vi diamo occasione di vantarvi a nostro riguardo, affinché possiate rispondere a coloro il cui vanto è esteriore, e non nel cuore. 13Se infatti siamo stati fuori di senno, era per Dio; se siamo assennati, è per voi.
Paolo parla di un vanto nel Signore, e poi lui parla di un’uscita di senno. Di cosa stiamo parlando? Paolo ha un rapporto con il Signore molto intenso e ha avuto anche delle estasi. Cosa è l’estasi? La potremmo definire, non come qualcosa di inarrivabile, ma come la consapevolezza piena nel nostro cuore, e non soltanto nella nostra coscienza, di ciò che in Dio si vive e di ciò che Dio ci dona. Se avvertissimo in un solo attimo quanto è grande l’amore di Dio per noi, penso che resteremmo immobilizzati. Come quando sei amato veramente ed hai la percezione dell’amore che ti arriva dall’altra persona e vai in estasi. L’estasi di un innamorato, di un uomo per la propria donna! Il momento massimo dell’amore tra due persone, il culmine, è l’estasi: tu non ci sei più, ma ti perdi nell’altro. Questo è accaduto anche per Paolo. Poiché, però, molti hanno detto «questo era fuori di sé», lui replica: «Se io sono uscito fuori di senno, è perché questo amore effusivo che sento nei confronti di Dio io ce l’ho per voi». Nel senso che lo vive in lui, ma non è che Paolo l’abbia ricevuto perché rimanga chiuso nella sua esperienza, nella sua intimità, ma quell’intimità adesso è condivisa perché Paolo vuole coinvolgere gli altri in questo rapporto con Dio, nella consapevolezza di questo rapporto con Dio. Se voi siete “operatori” della carità, permettetemi questo termine, non potete vivere altra carità che non sia quella di Cristo e non potete perdere la consapevolezza che questa è dono di Cristo. Vi porto un esempio. Madre Teresa, per fare quello che faceva, pregava quattro ore. Significa che, se io perdo il contatto con Dio, io agli altri non posso fare/dare più nulla. Sono come il sale che serve solo per essere calpestato, per nient’altro. Se noi perdiamo questa consapevolezza, ciò che facciamo perde di sostanza. Altra domanda che ci potremo porre nel momento di silenzio: il mio agire quanto si basa sulla relazione che cerco con Dio? Certo, poi, la profondità non la possiamo stabilire noi, ma noi siamo “nella ricerca”. Ricerchiamo noi questa dimensione? Nel momento in cui la cerchiamo, questo amore che vive in noi è un amore eccedente in quanto ha la misura e la forma di quello di Cristo, non più la nostra misura umana! Paolo dice che noi dobbiamo trovare il vanto, non nelle cose degli uomini, ma nel Signore. Nel Signore dobbiamo trovare il vanto di quello che facciamo. E Paolo dunque dice che, se è uscito fuori di senno, se è stato preso per pazzo, era per loro, per i corinti. Allo stesso modo, se trova il senno, lo fa sempre per loro. Questa dimensione eccedente, uscire fuori di se stesso, Paolo non la vede come un beneficio per la sua persona, ma sempre per gli altri. È bellissimo questo passaggio: dobbiamo sempre mantenere, in tutto ciò che facciamo, la coscienza che tutto ciò che è vissuto nell’intimità e possiamo recuperare per noi andrà veramente a beneficio degli altri, della comunità cristiana. «L’amore del Cristo infatti ci possiede» – dice Paolo. Credo che una caratteristica di ciò che voi avete realizzato negli anni (ed è una consapevolezza che, anch’essa, dovete acquisire in questa giornata) è che c’è una reale appartenenza tra voi. Che questa appartenenza, poi, sia nella fatica delle differenze, nella fatica della ‘costruzione’, del dover discernere giorno per giorno quale sia la volontà di Dio nelle situazioni complesse della vita, questo è un altro paio di maniche. Credo però che, questa consapevolezza, voi la dovete fare sempre più vostra. Siete posseduti e possedete qualcosa in quello che vivete: non è un possesso egoistico, ma appartenenza, l’appartenere realmente qualcosa e a Qualcuno con cui condividi un reale cammino. Penso che questa consapevolezza voi già la vivete nei compiti che vi sono stati affidati. L’amore di Cristo vi possiede: è qualcosa che è cresciuto in voi, già in atto, lo dovete solo consapevolizzare sempre di più.
14L’amore del Cristo infatti ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti.
Cristo muore per tutti, perché tutti possiamo morire. Il morire in questo caso è il segno più alto dell’amore. Questo segno si concretizza nella comunità cristiana e in ogni forma di servizio quando, ciò che Cristo ha fatto per noi, lo si vede da quello che sappiamo fare per gli altri. E quello che possiamo fare per gli altri è esattamente quello che ha fatto Gesù per noi: morire. Perché l’amore porta in sé questo dinamismo che consiste nel fatto che, mentre muori, rinasci. Siamo stati segnati nel battesimo di Gesù, che è morte e risurrezione, per cui non c’è solo la morte! Torniamo al punto di prima: non c’è solo la morte (senso dell’oppressione) ma, nella sofferenza per Cristo, c’è il morire e il nascere nello stesso tempo. È come (non mi viene esempio più bello) una mamma o un papà mentre si consumano nel dono più totale ai propri figli: si sentono stanchi, ma poi si sentono allo stesso tempo realizzati. Una stanchezza che ti realizza e non ti opprime! La morte come capacità di spendersi e consegnarsi, e la morte fu per Gesù la consegna vera. Pensiamo ad un’altra frase di Gesù che, dal punto di vista umano, è totalmente fuori contesto: «Io ho desiderato ardentemente mangiare questa Pasqua con voi». Gesù sta parlando della sua morte. È lì che Gesù sente di concretizzare il massimo della donazione.
Questo è il cammino pedagogico che ci viene consegnato:
16Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così.
Questo è un cammino che dura tutta una vita. San Francesco diceva una cosa molto concreta ai suoi frati: se noi guardiamo agli apostoli o a quelli contemporanei a Gesù, senza guardare allo Spirito Santo e guardiamo soltanto alla maniera umana, ci siamo persi il bello di quella presenza. Se questo accade nei confronti di Gesù, accade però anche per altri aspetti. Se noi guardiamo l’eucaristia soltanto dal punto di vista umano, vediamo solo un pezzo di pane … Se la guardiamo nello Spirito, è la presenza di Dio. Ora questo passaggio Paolo lo riporta a noi. Dobbiamo imparare a conoscerci (e qui ci vuole tutta la pedagogia di una vita) non alla maniera umana! Cosa significa? Se io leggo la presenza delle persone che mi sono state messe accanto non alla maniera umana, ma nel dono di quella presenza che Gesù assicura ad ognuno, di quel timore di Dio che vive in ognuno, posso leggere e cogliere ciò che di sovrannaturale c’è nella dimensione umana. Praticamente questo conoscere gli altri e volerli leggere nello Spirito deve essere una pedagogia, una tensione costante in tutta la nostra vita, e non è un’opzione. Dobbiamo voler imparare a conoscere gli altri, e leggerli non soltanto alla maniera umana, perché ci è stata data una conoscenza che la supera. Qui sta anche la priorità della preghiera perché, se voi imparate a pregare e a percepire Dio nella preghiera, imparerete a percepire Dio negli altri. Che siano i bisognosi, che sia un tuo collaboratore, che sia un superiore, bisogna cercare e percepire oltre. Stiamo parlando anche di una cosa che nella vita religiosa ha un nome preciso: l’obbedienza. L’obbedienza altro non è che il saper leggere Dio negli altri. San Francesco diceva: «Noi siamo chiamati ad obbedire a tutti, non soltanto ai superiori. Chi obbedisce solo al superiore è uno assoggettato, ma chi obbedisce al proprio fratello, chi obbedisce anche alle cose della vita, a tutte le creature umane, è un uomo aperto perché obbedire significa ascoltare». Rimanere nell’ascolto di quello che Dio ci può dire attraverso l’altro! Perché, se noi leggiamo nella maniera umana, allora gli altri divengono pedine nelle nostre mani, e questo lo dico a chi ha più responsabilità. Se uno viene chiamato dal Signore a fare il vescovo e dovesse ‘leggere’ i suoi presbiteri alla maniera umana, li riduce a delle pedine che si possono spostare e girare ma senza capire, senza leggere ciò che di Dio c’è in loro. Invece ‘leggere’ alla maniera di Dio, in fondo, è la paternità spirituale. Lo rivedo anche in me stesso …Se viene una persona a parlare con me e l’ascolto dal punto di vista umano, mi metto nelle condizioni di poterla ascoltare nei suoi bisogni, poi però mi faccio una domanda: ma cosa c’è in questa persona di Dio? Cosa mi sta dicendo Dio attraverso questa persona? Perché ogni persona che Dio mi mette accanto è sempre una parola nuova che Dio mi sta rivolgendo. Questo non è solo il compito di uno che è responsabile di una comunità (per lui lo è particolarmente), ma è il compito di una fraternità, di persone che stanno accanto. La fraternità non la costruisce solo il superiore ma tutti i frati, parlando in termini religiosi. La fraternità non è un’ideologia, ma è qualcosa che accade quando tutti lavorano alla sua costruzione.
17Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.
L’essere in Cristo ti permette di essere una creatura nuova! Perché creatura nuova? Perché vedi negli altri il nuovo per mezzo di Cristo, come se avessi il suo stesso sguardo nei tuoi occhi ed imparassi a guardare gli altri con questi occhi. E gli altri, lo ripeto, possono essere le persone bisognose, le persone che ti sono state messe accanto, i tuoi collaboratori, le persone che hanno un compito di responsabilità. “Vedere gli altri per mezzo di Cristo” è l’espressione bellissima che ci da il senso dell’essere nuove creature come tensione educativa (termine che voi conoscete meglio di me). La tensione educativa diventa il luogo di una potenza straordinaria dove tutti siamo immessi: la potenza dello Spirito Santo, che ci mette dentro un fuoco che, diremmo con Geremia, «non può essere più spento». Un fuoco che non si spegne neanche nelle persecuzioni perché, un altro limite dell’amore vissuto alla maniera umana, è proprio che, quando è perseguitato, si estingue. Pensiamo alle relazioni umane quando non sono vissute sotto lo sguardo di Dio … A un certo punto c’è in noi quella tendenza all’autodifesa e a tirare i remi in barca. Invece c’è, nell’amore che Cristo ci ha dato, questa eccedenza che fa sì che, nonostante ci siano le condizioni per fermarsi, non ci si può fermare. Nonostante ci siano le condizioni umane per fermarsi, quell’amore non si può fermare! Questa è la caratteristica di Cristo. Immaginiamo il contesto dell’ultima cena: non c’è un contesto più drammatico di questo. È il luogo, più del Getsemani, dove Gesù si trova di fronte gli apostoli, i discepoli, che sono tutti dall’altra parte. Per lui è una condizione di estrema solitudine. Se Gesù avesse smesso in quel momento, umanamente, di amarci, non ci sarebbero stati il Getsemani, la morte in croce, non ci sarebbe neanche l’eucaristia. Gesù lì ha deciso di amare in quanto figlio di Dio e ci ha donato questo amore eccedente che non si ferma davanti all’estrema sofferenza. Se c’è stato un momento in cui Gesù ha avuto davvero consapevolezza di chi erano i suoi, è stato nell’ultima cena. Egli «sapeva cosa c’era nei loro cuori» – ci dicono i vangeli. Dunque l’eucaristia è la massima consapevolezza di Gesù che non ha smesso di amarci neanche quando è impossibile amare, cioè quando sei solo. Credo che questi aspetti appartengano davvero a tutti e ci qualificano come cristiani perché, se non c’è questa certezza, non possiamo fare nulla. Gesù ci dice che, senza di lui non, possiamo fare nulla: è vero! Senza il suo amore nella nostra vita, non possiamo fare nulla. Sì, magari possiamo fare delle cose, ma non sappiamo perché le facciamo: le capiamo solo vivendo questo amore eccedente. Dicono ancora i vangeli: «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine». Io tradurrei così: fino al punto in cui è impossibile umanamente amare.
Su queste riflessioni che ho condiviso potrete farne altre personalmente. Vi dico qualcosa sul silenzio. Quando siete in preghiera, acquisite questa consapevolezza: anche se non sentite nulla, non siete mai soli. In quella «fede diritta», come diceva san Francesco, parlate al Signore. Anche se non sentite nulla, lui troverà il suo modo di comunicare con voi. Il silenzio è necessario perché è la pausa necessaria per gustare le note musicali. Chi studia musica lo sa: nel silenzio si attende la nota. La musica senza pause ci stresserebbe; il silenzio è questa alternanza necessaria alla vita. Pensiamo al respiro: il silenzio è anche il respiro dell’anima, perché tu ti prepari a ricevere colui che sta di fronte a te e ti prepari a ricevere coloro che stanno di fronte a te. Questo me lo insegnate voi: quando devi incontrare, accogliere gli altri, lo fate meglio se prima fate silenzio, e in questo silenzio iniziate già ad accogliere colui o colei che verrà. Se questo vale nelle nostre relazioni umane, vale anche con Dio. Solo che, quando accade con Dio, questo amore eccedente, fuori misura, smisurato, questo amore si comunica agli altri. Quando tu parli con Dio nel silenzio automaticamente sei trasformato e te ne accorgerai quando sarai chiamato ad essere pane spezzato. Mentre il pane lo possiamo spezzare con le mani, se noi non viviamo in Gesù, non ci possiamo spezzare per gli altri. Spezzarsi vuol dire dare una parte di noi, anche la più cara. Porto due esempi tratti dai vangeli. Il primo: la moltiplicazione dei pani e dei pesci in Luca. Il secondo: la parabola del buon samaritano. Sono due esempi di amore eccedente. Nel primo c’è questa grande folla. Chi sta seguendo Gesù, razionalmente dice di rimandare tutte le persone in quanto i pochi pani e pesci non bastano. L’eccedenza, nella risposta di Gesù, dove sta? Nel prendere poco pane e poco pesce che ti è rimasto dalla giornata e dividerlo. Nel buon samaritano invece abbiamo il sacerdote e il levita che uscivano dal tempio per andare a casa. Per loro la giornata era terminata. Il samaritano invece era in viaggio e deve mettere nel preventivo della sua giornata qualcosa che non aveva previsto, e lo fa con sovrabbondanza soccorrendo l’uomo. Nel silenzio voi dovrete consapevolizzate ciò che avete ricevuto: la vostra chiamata! Chiedete al Signore: Signore aiutami a vedere! Aiutami a vedere chi sei tu e chi sono io, chi sono gli altri. Vivete il silenzio come opportunità. Questo silenzio lo potete portare ovunque voi andiate e, più siete stanchi, più fate silenzio, perché troverete la vostra forza in Dio. Non dobbiamo porre rimedio alla stanchezza col baccano, col frastuono, con le parole inutili, con i commenti inutili, con le critiche inutili. Questo vi renderà oppressi. Ciò che ci libera è portare il nostro baccano (quello che a volte gli altri ci restituiscono, quello che c’è dentro di noi) ed estinguerlo nel silenzio di Dio perché, parlando a noi lui, possa ripristinare la bellezza dell’amore che è sempre eccedente.