Casa Don Puglisi da trent’anni accoglie, fa crescere comunità e si fa promotrice di un’economia che faccia crescere beni comuni e relazionali.
Nelle nostre iniziative ci facciamo guidare dai principi dell’economia “civile”, volta al benessere e alla felicità comune.
Oggi ve ne parliamo con questo brano estratto da L’economia civile. Un’altra idea di mercato.
“La prima operazione da compiere per avvicinarsi all’Economia civile è immaginarla come una sinfonia. Non pensarla quindi come un trattato scientifico sistematico, né come un affresco da osservare e contemplare come opera compiuta e definitiva. La sinfonia, sebbene si basi su uno spartito scritto secoli fa, vive e rivive mentre la si esegue, con un ruolo essenziale degli interpreti, del direttore d’orchestra, e degli ascoltatori. È un «bene d’esperienza», il cui valore emerge soltanto mentre l’esperienza si svolge. Così l’Economia civile, che vive dall’accordo di più note e strumenti, antichi e nuovi, e che per essere compresa e apprezzata non deve essere ridotta a un solo motivo dominante, né alla partitura del solo primo violino o del pianoforte, che pur ci sono.
Si capisce allora che dire Economia civile è dire più cose allo stesso tempo, tutte co-essenziali, vive, diverse.
È una tradizione di pensiero e di opere. L’età dell’oro di questa tradizione è il Regno di Napoli nella seconda metà del Settecento, grossomodo tra Vico e la rivoluzione partenopea. Una tradizione antica, con alcune radici nella civiltà cittadina medioevale, nei suoi monasteri, nelle sue arti e suoi mestieri, nella tradizione francescana e domenicana. Altre radici arrivano fino al mondo greco e romano, alle loro areté/virtus, pólis/civitas, eudaimonía/felicitas publica.
Questa tradizione, italiana ed europea, antica e nobile, ha subìto una prima frattura con la Restaurazione dopo l’età napoleonica, e con il Risorgimento, quando tutto ciò che era accaduto in precedenza fu visto come ancien régime, espressione del feudalesimo, compresi scrittori e filosofi. La frattura non ha determinato la morte di questa tradizione, ma solo il suo inabissamento nel profondo della nostra cultura; di tanto in tanto è riemersa dando vita a importanti fenomeni economici e sociali (come quello cooperativo, i distretti industriali, l’esperienza Olivetti, l’economia di comunione…), e ispirando intellettuali ed economisti.
L’Economia civile, poi, è anche la via al mercato e all’economia di quella regione del mondo — l’Europa, in particolare l’Europa a matrice culturale comunitaria e latina — che non si è basata, come pietra angolare, sull’individuo e sulle sue libertà dalla comunità. Diversamente dalla tradizione della political economy, l’Economia civile è economia relazionale, sociale, «cattolica» nel senso etimologico che ci svelerà Fanfani.
Ancora, l’Economia civile, essendo un albero antico ma ancora vivo e capace di portare fiori e frutti, come l’ulivo secolare delle nostre terre, è anche uno sguardo sul nostro tempo, un giudizio critico per renderlo migliore. Per questo è anche policy, lavoro, finanza, banche, imprese. All’Italia di oggi mancano tante cose perché manca una grande narrativa delle sue radici e quindi del suo futuro. Non si danno innovazioni senza radici e alberi — non dimentichiamo che «innovazione» è la parola che si usa in botanica per i nuovi germogli. L’Italia, perdendo negli ultimi decenni contatto con le radici umaniste e con l’albero dell’Economia civile, non innova più. Infine, l’Economia civile è anche una grande narrativa sulla vocazione e sul destino del nostro paese, sul suo passato, sull’oggi, sul suo domani”.
(Luigino Bruni e Stefano Zamagni, L’economia civile. Un’altra idea di mercato, Il Mulino, Bologna 2015)