Esattamente nei giorni in cui noi immaginavamo di aprire la nostra Casa a Modica, nel 1990, determinati a non restare indifferenti a chi viveva nella solitudine e nel bisogno, Don Pino Puglisi immaginava di aprire il suo Centro Padre Nostro a Brancaccio, determinato a testimoniare una vita e una cultura alternative ai padrini della mafia.
Quando noi questa Casa l’abbiamo inaugurata, il 26 ottobre 1990, lui poneva ancora segni quotidiani tra le strade di Palermo. E noi qui e lui lì mettevamo al centro dei nostri progetti la preghiera nel Padre Nostro affinché fosse capace di radicare in noi il senso della fraternità nel realizzarli, glieli affidavamo affinché si concretizzassero come «esplicita fiducia nella solidarietà degli uomini che esprime a sua volta la Provvidenza di Dio» (sono le sue parole!), sceglievamo per i nostri passi quella collocazione nella storia che ci portasse a procedere sulle orme di Gesù povero: quella tra i piccoli, gli ultimi.
Per questo il nome di Don Puglisi ancora oggi lo portiamo con noi come una presenza amica che continua a sostenere i nostri passi sulla scia di quelle orme: un’ispirazione, un esempio limpido di tensione educativa e di coerenza civica, ma prima di tutto una affettuosa compagnia che qui continua a trovare “la sua Casa”, tanti luoghi e tanti cuori in cui continuare a vivere.
E per questo abbiamo deciso di cominciare da qui, in occasione di questo compleanno per noi così speciale, a raccontare i nostri “Trent’anni con Don Puglisi”.
Non molti, anche tra coloro che ci seguono più da vicino, ricordano che è proprio in virtù di questo legame primigenio e ancora tutto da decifrare – legame tra chi, in modi e contesti diversi, con misure diverse, ha creduto e crede che ogni vita vada onorata e che per questo nessuno debba essere lasciato senza «un’ala di riserva» (come amava dire don Tonino Bello) – che abbiamo poi deciso di intitolare a Don Puglisi la nostra Casa.
Quando ci siamo trasferiti nella Casa del Seminario di via Carlo Papa, oggi la nostra Casa, erano passati pochi anni dalla sua morte e di lui non si parlava ancora molto. Noi eravamo rimasti già colpiti da quella testimonianza, la scelta inevitabile di un prete che aveva aperto una sfida con la mafia per i suoi bambini, per aiutarli a crescere «a testa alta», per farli pensare, per provocare un cambiamento.
Quel suo coraggio sempre, ogni giorno, vorremmo non solo coltivarlo scendendo negli inferi della vita – che se a Palermo si possono chiamare Brancaccio, per noi diventano le zone oscure dell’esistenza, dove la mancanza di affetto e di relazioni significative genera ferite profonde, difficili da risanare – ma anche e soprattutto continuando ad apprendere che la sorgente di questo impegno può essere solo un cristianesimo centrato sulle cose essenziali della fede, sintetizzate nelle sue 3P – Parola, Pane, Poveri -, la misura di una vita pensata e vissuta per gli altri.