Condividiamo le nostre parole, ne esploriamo insieme il significato: lo stiamo facendo spesso in queste settimane in cui ripercorriamo quelli che abbiamo chiamato i nostri “30 anni con Don Puglisi”.
Ma proprio perché ci teniamo, al significato delle parole, molto spesso ci leghiamo anche a quelle degli altri: parole che ci aiutano a rendere più chiare le nostre, provenendo dalla stessa linfa, attraversando gli stessi percorsi.
Così, quando parliamo in particolare dei rapporti tra la nostra Casa e la città, ci fa piacere far riferimento a tre testi esemplari che per noi riassumono ciò che nella Casa si può sperimentare, si cerca di vivere, si desidera offrire.
Anzitutto un senso per la vita, come quello che risuona in un brano tratto dal dramma “Il fiore del dolore” del poeta Luzi, con cui il poeta dà voce proprio a don Puglisi e al senso da lui dato alla vita e alla morte.
Cos’è una vita / una vita nella vita / immensa incommensurabile. / La mia vita ha preso senso / dal non essere più, dall’essermi / stata tolta… / ma non era mia, /era del mondo, era della vita. / Signore, la mia vita / in te, presso di te è misteriosamente / tua e mia, / pure tra gli uomini, / i poveri, i reietti / tra i quali sono stato / a faticare, questo almeno resti:/ gli uomini d’onore non sono neanche uomini, / sono meno che uomini, si degradano da soli / al rango di animali / aiutali / a liberarsi dall’indegnità / ma aiuta prima le loro vittime. / Aiuta, ti prego, coloro che li aiutano (Mario Luzi).
Quindi una profonda unità tra fede e accoglienza, che rende pellegrini, come ricorda la figura di Abramo ripresa dal filosofo Levinas nella sua interezza: icona della vocazione umana e cristiana.
Che cos’altro può significare: discendenza di Abramo? Rammentiamo la tradizione talmudica e biblica su Abramo. Padre dei credenti? Certo. Ma soprattutto colui che ha saputo accogliere e nutrire esseri umani: colui la cui tenda era aperta ai quattro venti. Attraverso tutte queste aperture, egli spiava i passanti per ospitarli (Emmanuel Levinas).
E, infine, una collocazione tra gli ultimi e ultimo della storia, che ha il tono della beatitudine, evocata da un brano del teologo martire Bonhoeffer.
Resta un’esperienza di eccezionale valore l’aver imparato… a guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi, in una parola, dei sofferenti. Se in questi tempi l’amarezza e l’astio non ci hanno corroso il cuore; se dunque vediamo con occhi nuovi le grandi e le piccole cose, la felicità e l’infelicità, la forza e la debolezza; e se la nostra capacità di vedere la grandezza, l’umanità, il diritto e la misericordia è diventata più chiara, più libera, più incorruttibile; se anzi la sofferenza personale è diventata una buona chiave, un principio fecondo nel rendere il mondo accessibile attraverso la contemplazione e l’azione: tutto questo è una fortuna personale. Tutto sta nel non far diventare questa prospettiva dal basso un prender partito per gli eterni insoddisfatti, ma nel rispondere alle esigenze della vita in tutte le sue dimensioni; e nell’accettarla nella prospettiva di una soddisfazione più alta, il cui fondamento sta veramente al di là del basso e dell’alto (Dietrich Bonhoeffer).